Mons. Peri: “San Francesco, anticipatore di una realta’ riscattata”

mons. Calogero Peri

La rivoluzione di Francesco

Nel giorno in cui contiamo i morti del naufragio di Lampedusa, la Chiesa fissa i suoi occhi ad Assisi, sulla tomba del poverello.
Non è semplice illustrare brevemente i tratti salienti della vita di san Francesco d’Assisi, non solo perché siamo distanti nel tempo, ma anche perché è difficile cogliere dentro un contenitore la figura, l’esperienza spirituale, umana ed ecclesiale di san Francesco. È difficile, insomma, avere degli elementi che ci permettono di cogliere questa effervescenza evangelica nuova che, senza dubbio, ha messo sottosopra gli schemi culturali, ecclesiali, antropologici, sociali, del suo tempo. Non a caso c’è una questione francescana.
Fin dall’inizio di san Francesco se n’è impadronito il racconto leggendario, appunto perché ognuno lo voleva tirare dalla sua parte, e quindi lo tiravano da tutte le parti. Questo significa che l’esperienza di Francesco non era così semplice e lineare da leggere. Conteneva uno spessore, una novità, delle esperienze germinali che non era facile allora, come in seguito, e ritengo come oggi, riuscire a contenere in un discorso unitario. Mi riferisco, ad esempio, alla sua esperienza, alla sua proposta, al suo modo di leggere e interpretare la Parola e di proporla alla sua vita e con la sua vita alla società e alla Chiesa del suo tempo e quindi del nostro tempo.
Subito dopo la morte di Francesco i tentativi biografici compiuti hanno rilevato, sia negli autori più emblematici come ad esempio il Celano, che Francesco rimaneva sempre o in parte fuori da qualsiasi schema geografico si volesse seguire.
Il Celano scrisse ad esempio una prima vita di Francesco, ne scrisse una seconda e poi alla conclusione del Trattato dei miracoli dirà letteralmente non possiamo “mutare ciò che è quadrato in rotondo”. Indicando appunto che Francesco rimaneva sempre altro ed era diverso, altrimenti rispetto a tutte le biografie che si riuscivano ad elaborare.
Questo aspetto divenne addirittura una questione interna al francescanesimo.
Bonaventura ad un certo punto ritirerà tutto il materiale che circolava su Francesco, ritenendo che era opportuno scrivere una biografia ufficiale, proponendo la sua leggenda, tentando di raccogliere quello che su Francesco dovesse essere ufficiale. La stessa Chiesa si premurò di farlo Santo, come dire cristallizzando la sua figura.
Questo perché, già in vita, Francesco poneva un interrogativo fondamentale non dico alla Chiesa periferica, ma alla Chiesa centrale, a Roma. La questione era: se ad una sua proposta di vita evangelica, o di vita austera come sembrava allora, o di vita impossibile come sembrava ad alcuni, la Chiesa nega a Francesco la possibilità di vivere questa esperienza, perché si dice che è impossibile, allora si afferma che è impossibile vivere il Vangelo.
La strana approvazione orale che Francesco ricevette dalla Curia romana esprime appunto questa difficoltà che la Chiesa ufficiale aveva nel disporre o predisporre schemi che potessero in un certo senso contenere e quindi accogliere senza una grossa revisione interna, una trasformazione profonda, un’esperienza nuova in senso evangelico, un’esperienza dello Spirito.
Penserei che la prima questione sulla quale riflettere è: con quali schemi accogliamo la vita di Francesco?
Ne vorrei proporre alcuni, pur sapendo che Francesco resta altro, rispetto ad ogni nostro tentativo.
Fra questi l’avere spostato l’attenzione dall’uomo a Dio; dal singolo alla fraternità; dalle leggi alla Legge; dalla legalità allo Spirito; dalle regole al Vangelo come esperienza di vita; dalla solitudine alla comunità; da un uomo centrato nell’io ad una vita centrata sul noi.
Pensiamo anche alla stessa ermeneutica della povertà, intesa non più come mezzo, ma come fine.
Il salto concettuale compiuto da Francesco è che la povertà, non è la povertà dei mezzi o delle cose. Al suo tempo c’erano tanti che proponevano l’idea di povertà declinandolo come avere poche cose, possedere poco, eppure, pur possedendo poche cose, essi avevano molto di sé stessi, del loro orgoglio, del loro giudizio…
Francesco si premurerà di cogliere nella povertà l’aspetto legato al fine: mettersi in atteggiamento di ascolto di una storia, di una vicenda, di un uomo, di una fragilità che sono sempre più grandi di ciò che manifestano, e sempre più significativi di ciò che riusciamo a cogliere.
Se volessimo ulteriormente semplificare questo schema, potremmo dire che Francesco si è misurato con le relazioni fondamentali che costituiscono l’uomo e che determinano la sua esperienza.
Ha riconsiderato, e quindi ha trasfigurato, la relazione con Dio; con i fratelli; con se stesso; con il mondo.
In questo senso, laddove il peccato ha introdotto degli scismi, fra l’uomo e Dio, fra l’uomo e i fratelli, fra l’uomo e se stesso, fra l’uomo e il creato, Francesco ha costruito o ricostruito questi ponti. In questo senso ha offerto una visione molto nuova.

La rivoluzione dello Spirito
Dal punto di vista dell’esperienza di Dio, Francesco ha sottolineato molto l’assoluto dello Spirito, l’assoluto di Dio, non un Dio lontano, ma un Dio che ha contemplato soprattutto nel mistero dell’Incarnazione, del sacramento dell’Eucaristia, visti con quello stupore e con quella meraviglia che sempre lo contraddistinguono.
Nel momento in cui si è riconciliato con Dio, nel momento in cui di Dio ha vinto quella paura atavica che Adamo gli aveva trasmesso, Francesco incomincia ad avere fiducia in Lui, e quindi Gli si può presentare anche nudo, cosa che farà davanti all’Episcopio esprimendo la rinascita alla paternità di Dio.
La stessa rivoluzione produrrà anche nelle relazioni con i fratelli. Rispetto a impalcature relazionali rigide, inamidate, ingessate, proporrà il calore delle relazioni, lo scambio, quel modello che è la fraternità. Una proposta talmente rivoluzionaria, allora come oggi, che non ha ancora esaurito tutto il valore implicito, in particolare come modello antropologico del tutto nuovo, del tutto inedito.
Anche le impostazioni linguistiche mutano, rispetto all’utilizzo dell’io, Francesco introduce la precedenza assoluta del noi. È emblematica la risposta che Francesco rende allorquando gli viene chiesto chi sia il perfetto frate minore. Risponderà proponendo non un frate, ma una fraternità, indicando il noi come io: il perfetto frate minore è colui che è capace di mettere insieme le qualità proprie e di ciascuno.
È da sottolineare che Francesco si riferisce non solo alle qualità morali o spirituali, ma anche fisiche di tutti i fratelli. Per questo enumererà, di almeno nove frati, qualche caratteristica peculiare, attento anche alle qualità fisiche di cui nessuno, in fondo, ha merito.
Propone quindi questa rivoluzione, che gli permette finalmente anche di avere un rapporto pacificato con se stesso. Sappiamo che ebbe momenti di tormento, di ricerca, di ansia… fino a quando si riscoprì alla luce di Dio e dei fratelli. C’è un Francesco che cerca se stesso in gioventù nell’allegria delle feste; quando vuole fare il cavaliere; quando è prigioniero; quando vende il cavallo; quando incontra il lebbroso… fino a quando, alla luce del Vangelo, ha chiaro ciò che desidera, ciò che vuole. Francesco individua il suo percorso, che sarà un esodo, un fuggire per ritrovarsi, e quindi per rinascere dall’alto.
Questo lo porta, anche, ad avere una nuova relazione – la quarta rinnovata – con il mondo.
Il mondo può essere il luogo in cui l’uomo si perde, ma anche il luogo in cui l’uomo ammira, contempla l’opera, l’azione, la trasparenza, la presenza, l’attenzione, la cura che Dio ha.
Il Cantico delle creature non è il segno di un romanticismo, ma il recupero in profondità di quello che le cose sono: segni che manifestano Dio. Basterebbe dire che il Cantico delle creature non nasce da una contemplazione fisica del mondo, ma del cuore. Francesco compone il Cantico quando era quasi del tutto cieco: canta la creazione sentendola con gli occhi interiori, gli occhi dello Spirito.
Sente le cose, le avverte, e non si ferma a quello che i sensi avrebbero potuto cogliere, ma va ben oltre. La creazione più che vivere fuori, vive dentro di lui. Nel mondo non vede solo i segni del peccato, della caduta, della fragilità, ma principalmente e più in profondità i segni della redenzione, del riscatto… i segni, cioè, di tutto ciò che ci può fare dire: felice colpa che meritò un così grande Salvatore.
Francesco vive, quindi, l’anticipo di quella redenzione che la creazione attende dall’uomo divenuto santo: Francesco vive l’anticipazione di una realtà riscattata, restaurata in tutte le sue espressioni.
Pensiamo ad esempio al fatto stesso che il Cantico dei cantici, come lettura redenta del mondo che lo circonda, si va componendo, nel tempo, di ulteriori strofe. Questo ci fa capire che ci sono zone d’ombra della realtà che magari, immediatamente, non rientravano in questa lettura di luce di Francesco. Ci sono realtà, quindi, che saranno integrate a poco a poco, dal perdono, ad esempio, a quella riconciliazione ultima con “sorella morte” per fare quel passo, il nunc dimittis, in pace, perché i suoi occhi hanno visto la salvezza e soprattutto la consolazione che Dio poteva offrirgli.
Ci troviamo dunque davanti ad una proposta che è gigantesca nella sue proporzioni e nei suoi intenti, anche se Francesco non aveva assolutamente questa intenzione.

L’incontro con l’uomo, l’incontro con la Chiesa
Si potrebbe ugualmente ripercorrere il suo tragitto umano e spirituale, dicendo che Francesco passa dalla delusione di tutto e di tutti, ad una visione della realtà che non è tanto una sua conquista, quanto un dono che riceve.
Non a caso quando ripenserà alla sua vita, in una sua – questa sì – ideale biografia, mi riferisco al Testamento di Siena, dirà: “Il Signore dette a me, frate Francesco…”.
Francesco inverte il soggetto, non è lui che ha fatto, ma il Signore che lo ha condotto a ripensare alle esperienze fondamentali della sua vita.
L’incontro con l’uomo. L’uomo, visto da un punto di vista umano, è deludente, è sempre lebbroso, non è mai esattamente quello che ti attendi, ti delude. La reazione immediata è fuggire dall’altro e rifugiarti nell’io.
Invece dirà: “il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da essi, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza d’animo e di corpo”. Avvertiamo, qui, il recupero totalizzante dell’unità dell’uomo.
Dio restituisce, insomma, l’uomo a Francesco e lui ebbe rispetto all’uomo lo stesso atteggiamento che ha Dio. Dio non ci tratta secondo i nostri peccati, ma secondo la sua misericordia. Qui è il punto: l’uomo non è più deludente per Francesco, ma è fratello e amico.
L’incontro con la Chiesa. Lo stesso sentimento di delusione avvertita dapprima nell’incontro con l’uomo Francesco vive a san Damiano. In quella chiesetta, diroccata, mal messa, abbandonata dagli uomini, scopre la presenza di Dio. Non è stata abbandonata da Lui, lì c’è un Crocifisso vivente, capace di parlare al suo cuore. Allora Francesco capisce che non si tratta di cambiare pagina, ma di rinascere dall’interno, di cambiare dall’interno.
Giotto trasferisce questa idea nell’affresco della Basilica superiore, ritraendo Francesco che sorregge il Laterano, mentre il papa dorme e si pone il problema se dargli o meno l’approvazione. Vediamo che i piedi del Santo sono dentro il perimetro della chiesa. Non c’è una sorta di appoggio esterno al governo della Chiesa, ma un appoggio sincero, interiore. Francesco capisce che si può restaurare solo ciò che si ama, solo ciò che ci identifica. In un primo momento Francesco si equivocherà. Metterà mano alla ristrutturazione muraria della chiesa, passeranno anni per comprenderne la lezione interiore.
Così come passeranno anni affinché comprenda la lezione per la sua vita. Non una lezione che si apprende una volta per tutte. Passerà così dall’orgoglio, dall’esperienza militare, dall’anno glorioso della prigionia, dal sogno conquistatore delle crociate, alla santità attraverso profondi travagli interiori, attraverso domande che lo inchioderanno.
Sappiamo, poi, dalla Lieta o Perfetta letizia che alla sera della sua vita, la fraternità lo deluderà ancora. In quel momento capisce che il percorso è sempre da riprendere, se si vuole entrare dentro il mistero rinnovato dell’esperienza di Dio.

La libertà del carisma
Cosa possiamo dire riassumendo quanto accennato? Che la proposta di Francesco era ed è affascinante. Una proposta tutta da esplorare e da vivere nella sua potenzialità e nella sua possibilità. Non soltanto, cioè, nella sua attualità, ma anche nella potenzialità implicita di attualizzazione.
È senza dubbio un progetto affascinante da un punto di vista antropologico, perché supera quelle visioni allora dominanti, e perché si pone, oggi, in radicale alternativa a discorsi sull’uomo che ne precludono sempre una piena comprensione.
È un programma interessante anche da un punto di vista ecclesiologico. Francesco indica sempre il valore del servizio. Lo conferma la proposta stessa di chiamare, i suoi frati, minori (in quel dualismo minore-maggiore), ma soprattutto poveri, che vivono le periferie del mondo.
Questa dimensione, che il Papa ci invita a vivere, è un’esperienza centrale nella vita di Francesco.
Nella sala della spoliazione, ad Assisi Papa Francesco ci ha richiamato ad un cristianesimo autentico, distante dalla mondanità spirituale. Nel giorno del pianto per le vittime di Lampedusa ci ha ricordato l’opzione preferenziale per i poveri, per gli ultimi, per gli emarginati.
Nella sua conversione san Francesco vive un costante movimento dal centro alla periferia di Assisi, lasciando intuire che tutto questo avviene perché si mette a poco a poco in ascolto dello Spirito; non programma una rivoluzione, ma si mette in ascolto dello Spirito che voleva fosse indicato e vissuto dai suo frati.
Si rammaricava, per questa ragione, di non avere avuto la possibilità di precisare nella sua regola che il generale dell’Ordine era lo Spirito Santo. Ma se manca la formula che suggerisce e di cui lamenta l’assenza nella regola, sappiamo che ogni qual volta Francesco dava un’indicazione la correggeva dicendo: “salvo se ad essi, secondo Dio e lo Spirito sembrerà più opportuno…”, lasciando aperta la convinzione che i frati non dovevano volere altro se non quello che lo Spirito suggeriva.
Nel Testamento di Siena dirà: “nessuno mi mostrava che cosa dovessi fare, ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo Vangelo”. E poi aggiungerà: mi diede dei fratelli, tanta fede nei sacerdoti…
È chiaro ed evidente che Francesco considera come fondamentale l’esperienza dell’irruzione dello Spirito nella sua vita, che lo aveva condotto per vive che non conosceva.
Tanto è vero che questa esperienza, successivamente, aprì a Chiara, alle donne, all’Ordine francescano secolare. Era un’esperienza traboccante.
Ritengo davvero che Francesco abbia elementi di attualizzazione e di attualità; abbia tanto da dire alla nostra società, alla Chiesa, all’uomo.
È importante però che non si tenti di imbrigliare questo fermento, questa sua esperienza di grande portata carismatica, perché sappiamo che anche quando gli stessi francescani hanno tentato di farlo, ciò è diventato motivo di contrasto e di lotte fra di loro.
Non è facile prendere Francesco e tiralo da una parte perché il rispetto enorme della sua esperienza, che è l’aver fatto veramente esperienza di Dio, ci permette di accostarci alla sua vita in punta di piedi.