La paternita’ oggi

RELAZIONE DI S.E. MONS. MARIANO CROCIATA
SEGRETARIO GENERALE DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA
IN OCCASIONE DELL’INCONTRO DIOCESANO DELLE FAMIGLIE
SUL TEMA “LA PATERNITÀ OGGI”


Caltagirone, 28 dicembre 2012


Premessa

Di paternità oggi c’è estremo bisogno, ma non è facile trovare padri. Non tanto per la riduzione che il calo demografico denuncia – da alcuni decenni ineso-rabile – collocando l’Italia tra i Paesi senza ricambio generazionale o al di sotto del livello di sostituzione (per cui i morti sono in numero maggiore dei nuovi nati)[1], quanto piuttosto per la cultura diffusa, per lo stile di vita, per i cambiamenti inter-venuti nella concezione dell’uomo e nella sua esistenza.
Il bisogno di paternità risulta particolarmente evidente nell’ambito educati-vo, che detta anche la prospettiva in cui si inserisce questa riflessione. E in tale pro-spettiva si vede subito come non sia possibile pensare l’educazione cristiana separatamente dalla più generale educazione umana, e come la questione del padre non tocchi solamente la famiglia, ma anche la società intera e la vita della Chiesa.
Svolgerò il mio intervento accennando, innanzitutto, ai motivi di crisi del compito educativo che coinvolgono la paternità alla luce degli Orientamenti pasto-rali dei Vescovi italiani, poi mi soffermerò sulla figura del padre così come le scienze umane e la tradizione cristiana ci permettono di delinearla, per passare infine a indicare l’impegno che si apre dinanzi a noi come adulti e come credenti.

Emergenza educativa
Negli Orientamenti pastorali è soprattutto il magistero del Papa a guidare la lettura dell’“emergenza educativa”, la cui radice principale è «quella falsa idea di autonomia che induce l’uomo a concepirsi come un “io” completo in se stesso, laddove, invece, egli diventa “io” nella relazione con il “tu” e con il “noi”»[2]. Secondo tale idea – dice il Papa – «l’uomo dovrebbe svilupparsi solo da se stesso, senza imposizioni da parte di altri, i quali potrebbero assistere il suo autosviluppo, ma non entrare in questo sviluppo. In realtà, è essenziale per la persona umana il fatto che diventa se stessa solo dall’altro, […] è creat[a]o per il dialogo, per la comunione sincronica e diacronica. […] Perciò la cosiddetta educazione antiautoritaria non è educazione, ma rinuncia all’educazione»[3]. Nella concezione – e nella pratica – dell’educazione che si è diffusa negli ultimi decenni è diventato ricorrente il rifiuto dell’autorità e l’esaltazione dell’autonomia, secondo un preteso processo di autoeducazione e uno spontaneismo senza fondamento e senza meta[4].
A questa radice dell’“emergenza educativa” se ne aggiunge un’altra, che può essere ricondotta a un naturalismo chiuso alla trascendenza. «La natura umana non è vista come una grammatica che contiene una promessa e un appello a decidere e a costruire la propria identità, ma è una “cosa di natura” che si può trasformare a proprio piacimento»[5]. A ciò corrispondono lo scetticismo e il relativismo – di cui pure parla il Papa – circa la possibilità di accedere alla realtà e alla verità delle cose e, ultimamente, di Dio[6]. In tal modo l’isolamento dell’essere umano nella condizione terrena e la sua preclusione rispetto a un orizzonte trascendente, la riduzione del suo sviluppo personale a un’autonomia priva di riferimenti rendono nulla ogni proposta educativa e, con essa, ogni figura che possa accompagnarla, a cominciare da quella del padre.
Il documento dei Vescovi non manca di rilevare altri aspetti dell’“emergenza educativa”, come per esempio le difficoltà inerenti i «rapporti tra le generazioni»[7] e la «separazione tra le dimensioni costitutive della persona, in special modo la razionalità e l’affettività, la corporeità e la spiritualità»[8]. Esso indica, soprattutto, un percorso per recuperare non soltanto il senso dell’educazione, ma ancora di più la struttura dell’essere umano che la fonda e la indirizza. Sussiste «un nesso stretto – leggiamo negli Orientamenti pastorali – tra educare e generare: la relazione educativa s’innesta nell’atto generativo e nell’esperienza di essere figli. L’uomo non si dà la vita, ma la riceve»[9]; «non esiste soggetto che si sia fatto da sé, non esiste autosufficienza, l’uomo non è un ens causa sui»[10]. Il bambino impara a vivere guardando ai genitori e agli adulti, dai quali prende inizio una relazione accogliente, in cui si è generati alla vita affettiva, relazionale e intellettuale[11]. L’educazione è un cammino[12] che ha bisogno di tempo[13] per giungere a portare il suo frutto, il quale consiste nel generare non solo un bambino ma una persona matura. Generazione, cammino, durata sono ancora oggi in grado di far riemergere il senso dell’educazione e il ruolo, in essa, degli adulti educatori, primo fra tutti quello del padre, al quale ora possiamo rivolgere più da vicino la nostra attenzione. Non senza avere, però, segnalato ciò che lo stesso documento osserva riguardo al nostro tema dischiudendo prospettive che anticipano considerazioni conclusive: «Oggi viene enfatizzata la dimensione materna, mentre appare più debole e marginale la figura paterna. In realtà, è determinante la responsabilità educativa di entrambi. È proprio la differenza e la reciprocità tra il padre e la madre a creare lo spazio fecondo per la crescita piena del figlio»[14].

La scomparsa del padre
Tante volte si parla delle cose quando queste sono diventate un problema. È il caso dell’educazione, non solo nella scelta dei Vescovi italiani di metterla a tema per il decennio in corso, in ragione della grave crisi in cui versa la trasmissione della fede in questo tempo e della necessità di trovare le condizioni per riportarla al cuore stesso del processo di crescita e di formazione della persona. È soprattutto la storia degli ultimi secoli a segnalare il sorgere del problema educativo. Di fatto, fino agli albori dell’epoca moderna l’educazione delle nuove generazioni era qualcosa che andava da sé, stava nella natura delle cose senza bisogno di pensarci su troppo. La stessa Riforma protestante non ha mancato di esercitare un suo influsso, a partire dall’idea della lettura e dell’interpretazione privata della Scrittura, che insieme al valore del ritorno alla Bibbia porta con sé la tendenziale eliminazione di ogni mediazione autorevole[15]. L’educazione diventa un problema soprattutto nell’epoca illuministica, per il rifiuto di ogni forma di autorità che il nuovo pensiero propugna. Il principio – espresso con tutta chiarezza da Immanuel Kant – secondo cui bisogna imparare a farsi guidare dal proprio pensiero e non dal giudizio degli altri[16], insieme all’indiscutibile valore di promuovere il pensiero critico e la personalità autonoma di ciascuno, produce anche l’effetto di mettere in discussione simultaneamente l’opera educativa e il ruolo del padre, in quanto figura riassuntiva di quell’opera. Lo scopo a cui ogni persona deve mirare è, in un certo senso, rendersi indipendente da ogni autorità e tutore, diventare guida a se stesso e perciò fare a meno di ogni educatore e di ogni percorso educativo. L’esito estremo – oggi presente in diverse teorie e prassi pedagogiche – è dato dalla riduzione dell’educatore a facilitatore nell’apprendimento di tecniche e nei processi di socializzazione[17].
C’è un paradosso a cui ci fa assistere l’evoluzione della storia e della cultura[18]. Mentre infatti la rivolta contro il padre ha raggiunto la sua massima espressione nella condanna senza appello dei totalitarismi del Novecento[19] – con le tragedie e i disastri che hanno provocato – e nella contestazione del ’68 del secolo scorso – i cui effetti sono tutt’altro che esauriti – comincia a farsi strada la deplorazione per una “società senza padri” e l’esigenza di un “ritorno del padre”. In effetti assistiamo a una ricerca affannosa di equilibrio tra rifiuto degli autoritarismi e recupero di una presenza essenziale non solo per chi cresce ma per l’equilibrio sociale nel suo insieme. L’equilibrio sarà trovato se prenderemo coscienza di alcuni fenomeni quali, ad esempio, quello dell’adolescenza prolungata indefinitamente, intesa non più solo come età della vita ma come condizione socialmente e culturalmente dominante.
Adolescente è una categoria recente, una invenzione – per così dire – del secolo scorso che introduce una distinzione, una fase di passaggio, in cui il giovane o giovanissimo si sente libero dalle costrizioni del bambino e nello stesso tempo senza ancora il peso e le responsabilità degli adulti. Ciò che a poco a poco si afferma è il prolungamento di tale condizione di vita, nella quale il tempo passa «facendo dello shopping, della cura dell’immagine e del divertimento, la propria filosofia di vita»[20]. Perciò, «il teenager cessa ben presto di essere una fascia di età biologica per diventare una mentalità, una categoria psicologica»[21]. Il simbolo di tale condizione è la figura letteraria di Peter Pan, il bambino che non voleva crescere. Il dramma si coglie appieno quando ci si incontra con adulti, tali solo anagraficamente ma in realtà psicologicamente adolescenti, cioè narcisisti, refrattari a norme e limiti, che continuano a considerare tutto come dovuto. «Il bambino e l’adulto tendono così a scomparire per dare vita a un non ben precisato “giovanilismo”, con tratti sempre più infantili»[22].
In questo processo si verifica, però, una alterazione, per effetto soprattutto della pubblicità e dell’espandersi della società dei consumi[23]: scompare l’infanzia, perché il bambino è trattato innanzitutto come un consumatore precoce che reclama indipendenza e autonomia. C’è in tale trasformazione qualcosa di mostruoso, poiché il bambino diventa un piccolo adulto che assimila i difetti degli adulti; la pubblicità, in particolare, porta tutti a pensare che si è vincenti se si è capaci di sedurre; non a caso la sessualità viene rappresentata come strumento di potere e di scambio. In questo modo i bambini vengono privati del senso e dell’esperienza dell’infanzia, così che «l’età infantile viene di fatto cancellata dall’immaginario culturale dei nostri Paesi»[24]; essa è una imitazione del mondo degli adulti. Tuttavia l’età infantile reclama i suoi diritti, e lo fa precisamente quando il bambino è diventato anagraficamente adulto, con il risultato che i bambini sono dei finti adulti e gli adulti sono rimasti dei bambini.
Così, «nessuno sembra avere più bisogno di essere educato, perché ritenuto autosufficiente, bastante a se stesso. D’altra parte, si potrebbe ugualmente dire che nessuno sembra più essere in grado di educare, di assumere l’onere di porre limiti e norme al bambino, perché non si distrugga. La superficialità e l’emotività, tipiche dell’età infantile, si ritrovano […] ugualmente presenti anche nell’adulto»[25]. L’infantilismo diventa una malattia diffusa; scompare l’adulto e si ridefiniscono i ruoli familiari: «non sono più i figli a dover imparare dai genitori e a ricevere da loro norme e insegnamenti, ma al contrario sono i genitori che si conformano ai criteri e ai comportamenti dei figli, cercando in questo modo di ottenere la loro approvazione»[26]. L’immaturità diventa galoppante e fa danni non meno della disoccupazione. Solo che i disagi che i giovani manifestano non sono soltanto il risultato di una mancata educazione e dell’assenza di adulti e di padri, ma esprimono anche una sorta di invocazione, «richieste implicite che il giovane rivolge agli adulti, almeno a quelli rimasti, di introdurlo nelle difficoltà della vita e nel mistero della morte»[27].
La famiglia è uno snodo della crisi di cui stiamo parlando e la cui radice è l’incapacità – tipica dell’adolescente – di compiere scelte definitive. «La fedeltà e la stabilità in genere, circa le scelte, la parola data, più che come un valore attraente sono viste come un peso troppo grande che spaventa»[28]. Tutto ciò denuncia l’assenza della figura paterna, simultanea all’indebolimento della famiglia, da alcuni salutata come una conquista quando è, invece, una sconfitta[29]. È una illusione che possa nascere una società fraterna, che possano esserci dei fratelli, senza un padre. Poiché solo un padre può «porre e riconoscere dei limiti, delle norme che, come segnali stradali, accompagnano e orientano il cammino»[30]. Quando mancano norme e limiti non c’è più società; fuori della famiglia c’è solo il branco.
Ora, «per introdurre efficacemente la norma si richiede un’autorità, un adulto, rappresentato in tutte le culture dal padre, che sia disposto a giocare un ruolo impopolare e poco gratificante, ma indispensabile per la costruzione dell’identità del proprio figlio»[31]. Per questa ragione c’è una reciprocità tra educazione e paternità; non c’è l’una senza l’altra. Tale mutua implicazione si svela nei riti di iniziazione o di passaggio, da sempre forma essenziale di transizione da una fase a un’altra dell’esistenza[32], ma oggi praticamente – e non a caso – scomparsi o soppiantati da surrogati aberranti.
Diventare adulti significa accettare di non essere più bambini, e quindi accettare la realtà, accettare la rinuncia quando è necessaria, accettare il limite come condizione per giungere a una esistenza veramente umana. Questo deve propiziare il compito educativo. Un compito tante volte ingrato, ma tante altre incomparabilmente gratificante, volto a insegnare che cresce veramente e diventa adulto chi riesce a non rimanere vittima dei propri desideri senza fine[33], chi riesce a uscire dalla prigione della fantasia per entrare nella realtà e acquistarne il senso. Questo compie l’adulto – un padre – in un contesto di relazione e di fiducia, in un equilibrio tra gioco e norma, tra fermezza e tenerezza. È chiaro, però, che solo un adulto che ha compiuto questo lavoro educativo su se stesso può aiutare altri a farlo. Tale lavoro comprende soprattutto l’accettazione del limite e della fragilità, della creaturalità e della dipendenza, in altre parole di non essere “Dio” (cf. Gen 2,16-17). «Non si può godere di tutto, non si può avere tutto, non si può sapere tutto. Insomma, non si può dominare il mistero della vita e della morte»[34]; «è solo sullo sfondo di questa impossibilità che si apre la possibilità di incarnare il proprio desiderio come vitale e capace di fruttificare»[35].
Psicologi e psicoanalisti fanno rilevare quali sono «le tre tappe fondamentali dello sviluppo umano: la nascita, lo svezzamento, la sconfitta edipica»[36]. Si tratta di tre passaggi dolorosi, tre rinunce necessarie, alla terza delle quali presiede in modo particolare il padre. L’assenza di queste tre rinunce comporta l’insorgere di insicurezze e frustrazioni, l’incapacità di pervenire alla stima si sé e di assumersi delle responsabilità, soprattutto l’impossibilità a riconoscere e a elaborare i desideri più profondi o, in altre parole, ciò che si vuole veramente dalla vita. Il padre è colui che sa far riconoscere e accettare limiti e frustrazioni, ma in un clima di affetto e di fiducia.
«Il padre insegna, testimonia, che la vita non è solo appagamento, conferma, rassicurazione, ma anche perdita, mancanza, fatica. Le esperienze più profonde, a cominciare dall’amore, prendono origine e forza proprio da quella perdita. Nella vita dell’uomo, il padre trasmette l’insegnamento della ferita perché la sua prima funzione psicologica e simbolica è quella di organizzare, dare uno scopo, alla materia nella quale il figlio è rimasto immerso durante la relazione primaria con la madre, e che di per sé tenderebbe semplicemente alla prosecuzione dell’esistente. Per questo il padre infligge la prima ferita, affettiva e psicologica, interrompendo la simbiosi con la madre […], e proponendo, da quel momento, allo sviluppo del bambino, una direzione, un télos, una prospettiva»[37]. Così il bambino impara a rinunciare, e soprattutto a decidere, parola che contiene nel suo etimo il taglio con qualcosa: non si può volere tutto; per abbracciare qualcosa o qualcuno, bisogna lasciar perdere altro e altri. È così che ci si rafforza, che si impara ad amare se stessi e gli altri.
Nel processo di formazione della personalità il ruolo del padre diventa importante per il bambino soprattutto a partire dall’età di sette anni, «considerato il tempo del suo ingresso nel mondo»[38]. Egli insegna a padroneggiare il pericolo e la paura, ad affrontare la sofferenza e la rinuncia, a entrare in relazioni reali  con gli altri e con il mondo, a imparare ad amare e ad essere amato per ciò che è. Il padre pone la norma, fissa la regola, e così facendo rafforza nel bambino una sana e realistica considerazione di sé. «Ciò può comportare frustrazione, ansia, ma è anche lo stimolo fondamentale a crescere, a migliorarsi per raggiungere un ideale arduo ma desiderabile»[39]. Senza norma ci si espone al rischio dell’autismo o del narcisismo, di non riconoscere la realtà con i suoi limiti e di mischiarla con una fantasia onnipotente, di non raggiungere la propria identità e la capacità di realizzare qualcosa di buono della propria vita. «Unire il desiderio alla Legge definisce con precisione la funzione simbolica della paternità»[40]. Infatti, «l’esercizio simbolico della paternità assicura al figlio la possibilità di sganciarsi dalla palude indifferenziata del godimento e di avventurarsi verso l’assunzione singolare del proprio desiderio»[41]. Qui sta anche la difficoltà dell’adulto quando non ha compiuto questo processo di maturazione, quando cioè non ha potuto vivere la propria infanzia, non si è potuto appoggiare su qualcuno e non ha acquistato la conoscenza esperienziale del limite e quindi la capacità di dire no.
Assieme al compito di indicare la norma e di farla osservare, il padre ha il compito di custodire e proteggere il figlio «nel suo ingresso nella realtà esterna» e infondergli fiducia, «in modo che possa affrontare e superare difficoltà confidando nelle proprie capacità»[42]. Il padre deve coniugare fortezza e benevolenza, mostrare il significato delle cose, aiutare a riconoscere e a gestire l’aggressività, ad apprendere la pazienza, la riflessività, la ponderazione, il dominio di sé.
Il terzo compito del padre consiste nell’aiutare il figlio a maturare «la capacità di vivere le relazioni all’insegna del riconoscimento della diversità, distinguendo tra sé e l’altro, senza cercare di assorbire l’altro a sé»[43]. Per questo è importante la cosiddetta sconfitta edipica, ovvero il distacco dalla madre e dall’esperienza fusionale con lei: «in tutte le culture, la separazione del figlio dalla madre è un evento centrale non solo per la vita del figlio, ma per l’intera comunità»[44]. In particolare il figlio maschio deve elaborare una doppia differenziazione, rispetto alla persona di lei e al suo essere donna; egli deve superare la tentazione di identificazione con la madre e, aiutato dal padre, maturare la propria identità sessuale maschile. Naturalmente tale processo avviene non nella contrapposizione ma nella integrazione e articolazione della presenza e dell’apporto della coppia dei genitori, sia del padre che della madre.
Il loro compito di generare si realizza quando lasciano andare il figlio, non lo trattengono presso di sé, affinché egli realizzi la propria vita e raggiunga la propria identità. Generare significa rendere capaci i figli di autonomia e di responsabilità. Generare è il contrario del possesso e dell’attaccamento morboso, perché è dono gratuito, il dono per eccellenza. I genitori devono saper riconoscere quando è arrivato il momento di farsi da parte per lasciar camminare i figli da soli. «La missione educativa può dirsi compiuta quando ha generato qualcuno in grado di continuarla. Saper lasciare è un’attestazione di fiducia nelle generazioni successive, è soprattutto una forma di saggezza»[45].

Nella luce della fede
Il compito del padre è introdurre il figlio nella realtà, aprirlo al mondo, indicargli una direzione, insegnargli a rinunciare al male. «Quest’azione lega indissolubilmente la relazione col padre all’esperienza spirituale, all’uscita da una dimensione esclusivamente orizzontale, dominata dalla materia […]. Attraverso l’esperienza dello spirito, il padre riconcilia col mondo l’individuo»[46]. Sussiste, perciò, una stretta relazione tra paternità ed esperienza religiosa, così che il deperimento della figura del padre produce un oscuramento anche della figura di Dio, e con essa l’indebolimento del senso della vita, la solitudine, il sentimento di abbandono, la paura di non riuscire ad affrontare il peso dell’esistenza. Secondo Carl Gustav Jung, c’è una connessione stretta fra abolizione dell’immagine di Dio e annullamento della personalità umana[47].
In presenza di una esperienza positiva del padre naturale, diventa più facile scoprire in Dio il significato del suo essere creatore, il sentimento della sua compa-gnia e vicinanza, del non essere soli ma conosciuti, dell’affondare le proprie radici in una compagnia originaria forte, della presenza rassicurante di Dio e, grazie a lui, dell’affidabilità della realtà. Quando manca questo senso di affidamento e di confidenza nella vita a partire dal suo fondamento ultimo, la tentazione è quella di un controllo preoccupato e ansioso nei confronti di tutto. Rientra in questa esperienza affidabile della realtà e di Dio, a partire dalla presenza positiva del padre naturale, il superamento dei condizionamenti biografici e la possibilità della libertà. Con la libertà è il futuro che si schiude, così che colui che entra nella vita non rimane a guardare indietro, al passato, ma si sente chiamato ad abitare e trasformare il mondo. Il padre è colui che presiede al viaggio della vita, che spinge a muoversi e ad andare.
Uno sguardo credente permette di cogliere una straordinaria corrispondenza tra la figura di paternità così emersa e la visione che ne scaturisce dalla fede. Possiamo qui indicare solo tre possibili piste di riflessione e ricerca.
La prima muove da alcuni temi biblici di carattere espressamente pedagogi-co, tra i quali uno dei più significativi è quello della correzione. È significativo os-servare che l’esigenza messa in evidenza – che il padre sappia coniugare interdizio-ne e donazione – sia presente nella Scrittura nell’intreccio tra correzione e amore, tra rimprovero e comprensione. Basti qui citare due luoghi classici: «Figlio mio, non disprezzare l’istruzione del Signore e non aver a noia la sua correzione, perché il Signore corregge chi ama, come un padre il figlio prediletto»[48]. Questa unione tra correzione e amore attraversa tutta la Scrittura come espressione dello stile educativo di Dio e diventa esemplare anche per l’essere umano: «Io, tutti quelli che amo, li rimprovero e li educo»[49]. La correzione, propria in particolare del padre, aiuta il figlio a uscire dalla condizione definita dai bisogni e dagli affetti, per maturare la propria identità e sviluppare la propria volontà filiale[50].
La seconda pista invita a ripercorrere la vicenda di Gesù nell’ottica della pa-ternità, da quella umana sostenuta da Giuseppe, al quale egli  sta sottomesso e da cui si lascia avviare al lavoro[51], a quella del Padre celeste, con cui si misura pre-cocemente in maniera decisa fin dall’età di dodici anni[52]. In Gesù appare la per-fetta reciprocità tra paternità e figliolanza, perché in lui si vede adempiuta la mis-sione paterna nella corrispondenza del figlio che si lascia guidare a uscire da se stesso e a fare della propria vita un atto di piena donazione; una donazione in cui adesione alla volontà del Padre e realizzazione del proprio progetto di vita si identificano.
La terza pista dovrebbe cercare una comprensione teologica della paternità nella luce del mistero trinitario. Una riflessione accurata dovrebbe rifuggire da an-tropomorfismi accomodanti, ma potrebbe cogliere alla luce della storia della sal-vezza il dato fondamentale dell’atteggiamento paterno di Dio come un movimento inesauribile di donarsi senza perdersi e di rimanere se stesso senza chiudersi; o, in prospettiva più esplicitamente storico-salvifica, come fedeltà a se stesso e al proprio disegno e volontà irriducibile di riconduzione del suo popolo a salvezza, o – ancora, in altri termini – coniugazione circolare inesauribile di giustizia e misericordia. Essere figli ed essere padri si misura ultimamente con questo riferimento ultimo, che accoglie ma si fa anche esigente nei confronti di ambedue i ruoli che l’essere umano si trova a rivestire, per imparare alla fine a riconoscere e vivere la condizione filiale nei confronti di Dio come ultima ragione di esistere, senza dimenticare che nella Trinità trova la sua radice e la meta la nuzialità e l’essere famiglia[53].

Con quali prospettive
Difficile pensare un ritorno al passato; ma ancora più difficile pensare il fu-turo senza un ritorno del padre e della famiglia. Non possiamo sognare un corso della storia e della cultura che cambi improvvisamente orientamento; possiamo però pensare e scegliere in quale direzione andare, nella convinzione che senza padre e senza famiglia non c’è futuro per l’essere umano, non solo per la fede e per i credenti.
Tale scelta è innanzitutto segnata da un atteggiamento di fiducia e da una operosità concreta. Non ci può appartenere – o almeno non deve persistere – il pessimismo, lo scoraggiamento, la sensazione di fallimento. Ci sono invece degli spazi percorribili di cui fare tesoro.
Innanzitutto sul piano sociale. Non bisogna rassegnarsi alla cultura domi-nante, segnata soprattutto dall’assolutizzazione del consumo e degli oggetti[54], dell’individuo e dei suoi diritti sganciati da ogni relazione interpersonale e sociale, privi di riferimento al bisogno dell’altro e alla responsabilità nei confronti del bene di tutti e di ciascuno. Attrezzati da una dottrina sociale che traduce la visione cre-dente dell’uomo e della collettività, siamo chiamati a generare cultura e animare pensiero fecondo sulla famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, sulla responsabilità educativa. Accanto a quest’opera di tipo culturale, è possibile e insieme necessario promuovere quelle alleanze educative indicate come compito specifico di questi anni e per il futuro dagli Orientamenti pastorali dei Vescovi. Ci sono forze e istituzioni che attendono di poter condividere iniziative e progetti, poiché il bene educativo è cercato e apprezzato ben oltre i confini ecclesiali.
Sul piano ecclesiale, si offrono possibilità molteplici di progettualità e di impegno. Innanzitutto è necessario continuare a investire risorse e persone negli spazi già impegnati nell’opera educativa, dall’iniziazione cristiana alla pastorale giovanile a quella pre-matrimoniale e familiare, alla catechesi degli adulti e alla formazione teologica, alle molteplici attività legate alle finalità pastorali della presenza e della vita della Chiesa. Come nel passato, questa è una stagione che vedrebbe accolto con gratitudine un movimento di rinnovato impegno formativo tendente a realizzare istituzioni dedicate all’educazione, come ad esempio scuole e strutture formative. A molti questi tempi appariranno ben poco favorevoli allo scopo, e da diversi punti di vista, ma proprio le difficoltà straordinarie di questa stagione inducono a progettare e a preparare tempi migliori.
Tutto questo ha bisogno di trovare riscontro, infine, sul piano personale. Il documento dei Vescovi denuncia un calo della passione educativa[55], che denota a sua volta una perdita di speranza e di fiducia nel futuro: «alla radice della crisi dell’educazione – dice il Papa – c’è infatti una crisi di fiducia nella vita»[56]. Biso-gna che noi adulti ricominciamo dal risvegliare il nostro personale senso di responsabilità, là dove siamo collocati, ben sapendo che ci sono situazioni e relazioni che hanno comunque una portata educativa nei confronti delle nuove generazioni. A questo scopo, senza presumere di sé, bisogna verificare con coscienza veritiera il proprio grado di maturità, per scoprire che – comunque – abbiamo bisogno di crescere ancora. Attendiamo da noi stessi una maturità maggiore, rendendoci in certo modo padri di noi stessi, capaci di dire a noi stessi dei no per lasciare sprigionare il desiderio di pienezza di vita e di futuro che vogliamo vedere risvegliare nei ragazzi e nei giovani di oggi.
Queste considerazioni vogliono essere solo un accenno alle possibilità che si aprono dinanzi a noi, molto maggiori di quanto le difficoltà non denuncino o lascino intravedere. La coscienza, ormai sempre più avvertita, che c’è bisogno di padri è già di per sé suscitatrice di rinnovate vocazioni alla paternità intesa come dedizione alle nuove generazioni perché si aprano responsabilmente all’appello della vita.

NOTE

[1] Cf. Il cambiamento demografico, a cura del Comitato per il Progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana, Laterza, Bari-Roma 2011, 10-13.
[2] Conferenza Episcopale Italiana, Educare alla vita buona del Vangelo. Orientamenti pastorali per il decennio 2010-2020, 4 ottobre 2010, n. 9.
[3] Ib.
[4] «Il modello della spontaneità porta ad assolutizzare emozioni e pulsioni: tutto ciò che “piace” e si può ottenere diventa buono. Chi educa rinuncia così a trasmettere valori e a promuovere l’apprendimento delle virtù; ogni proposta direttiva viene considerata autoritaria» (Educare alla vita buona del Vangelo, n. 13). L’esperienza dimostra «l’impraticabilità pedagogica del metodo antiautoritario. Il principio d’autorità è costitutivo della personalità, e condizione per il suo sviluppo». Del resto, «la società dell’assenza del padre […] è poi quella dell’assenza della norma morale, progressivamente sostituita dalla moltiplicazione dei dispositivi giudiziari, e dei regolamenti burocratici» (C. Risé, Il padre l’assente inaccettabile, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 2003, 26).
[5] F.G. Brambilla, La questione dell’identità: educare alla vita buona del Vangelo, in «Teologia» 36 (2011/1) 5.
[6] Cf. Educare alla vita buona del Vangelo, n. 11, che riporta anche la seguente citazione di Benedetto XVI:  «La natura viene considerata oggi come una cosa puramente meccanica, quindi che non contiene in sé alcun imperativo morale, alcun orientamento valoriale: è una cosa puramente meccanica, e quindi non viene alcun orientamento dall’essere stesso. La Rivelazione viene considerata o come un momento dello sviluppo storico, quindi relativo come tutto lo sviluppo storico e culturale, o – si dice – forse c’è rivelazione, ma non comprende contenuti, solo motivazioni. E se tacciono queste due fonti, la natura e la Rivelazione, anche la terza fonte, la storia, non parla più, perché anche la storia diventa solo un agglomerato di decisioni culturali, occasionali, arbitrarie, che non valgono per il presente e per il futuro».
[7] Cf. Educare alla vita buona del Vangelo, n. 12.
[8] Cf. ib., n. 13.
[9] Ib., n. 27.
[10] M. Recalcati, Cosa resta del padre? La paternità nel’epoca ipermoderna, Raffaello Cortina, Milano 2011, 16.
[11] Cf. Educare alla vita buona del Vangelo, n. 27.
[12] Cf. ib., n. 28.
[13] Cf. ib., n. 29.
[14] Ib., n. 27.
[15] Cf. C. Risé, Il padre l’assente inaccettabile, 51-60.
[16] «L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell’illuminismo» (Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?, Beantwortung der Frage: Was ist  Aufklärung?, 5 dicembre 1783).
[17] Educare alla vita buona del Vangelo, n. 13: «Questa separazione tra le dimensioni della persona ha inevitabili ripercussioni anche sui modelli educativi, per cui educare equivale a fornire informazioni funzionali, abilità tecniche, competenze professionali. Non raramente, si arriva a ridurre l’educazione a un processo di socializzazione che induce a conformarsi agli stereotipi culturali dominanti». Cf. La sfida educativa. Rapporto-proposta sull’educazione, a cura del Comitato per il progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana, Laterza, Bari-Roma 2009, 8-10.
[18] Cf. G. Angelini, Educare si deve ma si può?, V&P, Milano 2002, 71-72.
[19] Cf. C. Risé, Il padre l’assente inaccettabile, 66-69; cf. anche M. Recalcati, Cosa resta del padre?, 38-41.
[20] G. Cucci, La crisi dell’adulto. La sindrome di Peter Pan, Cittadella, Assisi 2012, 21.
[21] Ib.
[22] Ib., 27.
[23] Cf. M. Recalcati, Cosa resta del padre?, 41-49, qui 44: «La fede nell’oggetto che il discorso capitalista alimenta astutamente definisce il carattere artificiosamente salvifico dell’iperconsumo. La salvezza dall’angoscia dell’esistenza e dalla fatica del desiderare viene perseguita non per la via classicamente religiosa dell’abbandono delle cose terrene, ma per quella (ipermoderna) di una consumazione che sembra non conoscere più limiti. Questa salvezza è artefatta perché installa una forma di schiavitù del soggetto dal potere totalizzante dell’oggetto».
[24] G. Cucci, La crisi dell’adulto, 31.
[25] Ib.
[26] Ib., 32.
[27] Ib., 49.
[28] Ib., 61.
[29] Cf. Educare alla vita buona del Vangelo, n. 36; cf. M. Recalcati, Cosa resta del padre?, 87-111.
[30] G. Cucci, La crisi dell’adulto, 64.
[31] Ib., 65. Cf. G. Tognon, Dall’educazione all’autorità, in Autorità. Una questione aperta, Diabasis, Reggio Emilia 2010, 205-226.
[32] Cf. C. Risé, Il padre l’assente inaccettabile, 18-21; 60-65.
[33] Cf. La sfida educativa, XIV.
[34] M. Recalcati, Cosa resta del padre?, 63.
[35] Ib., 64.
[36] G. Cucci, La crisi dell’adulto, 71.
[37] C. Risé, Il padre l’assente inaccettabile, 12.
[38] G. Cucci, La crisi dell’adulto, 72.
[39] Ib., 75. «Il bimbo che entra nella relazione col padre, con l’uomo adulto, portatore della norma, eperimenta di non essere onnipotente, di essere vincolato a regole, a volte penose, che deve rispettare. Quest0’accettazione, dolorosa, libera però dall’ansia. Ogni psicologo, e ogni educatore, conosce bene la caratteristica ansia del bambino viziato, cui si cerca di evitare il più possibile l’esperienza del limite del divieto, della regola. Il bimbo diventa sempre più irrequieto, fino a sfidare incessantemente il mondo degli adulti e dell’autorità. Apparentemente lo fa per sfrontatezza e prepotenza. A livello più profondo, in realtà, egli cerca disperatamente di ricevere un contenimento, un arresto, una norma. Ha bisogno di sentirsi dire: “Questo non lo devi fare”, e cerca in ogni modo di soddisfare la sua necessità di una Legge» (C. Risé, Il padre l’assente inaccettabile, 25).
[40] M. Recalcati, Cosa resta del padre?, 51. «La funzione paterna non risponde forse innanzitutto alla domanda: come è possibile ereditare la facoltà di desiderare, come avviene la sua trasmissione da una generazione all’altra?» (ib., 17). «La Legge non è una minaccia ma una condizione del desiderio» (ib., 19).
[41] Ib., 27. «Nel tempo ipermoderno il nesso si dissolve dando luogo a una pseudoliberazione del desiderio dalla Legge che finisce per avallare la sua degradazione a puro capriccio, a un godimento compulsivo e sregolato privo di desiderio» (ib., 52).
[42] G. Cucci, La crisi dell’adulto, 77; cf. C. Risé, Il padre l’assente inaccettabile, 41-43.
[43] G. Cucci, La crisi dell’adulto, 79.
[44] C. Risé, Il padre l’assente inaccettabile, 18.
[45] G. Cucci, La crisi dell’adulto, 99. Cf. anche M. Recalcati, Cosa resta del padre?, 92-94.
[46] C. Risé, Il padre l’assente inaccettabile, 33.
[47] Cf. ib., 35.
[48] Pr 3,11-12, ripreso da Eb 12,5-13.
[49] Ap 3,19.
[50] Cf. P. Papone, Il rapporto padre/figlio nei libri sapienziali, in «Parola spirito e vita» 39 (1999) 71-83.
[51] Cf. Lc 2,50-51.
[52] Cf. Lc 2,41-50; cf. K. Stock, Giuseppe, padre di Gesù secondo la Legge, in «Parola spirito e vita»  39 (1999) 87-99; G.C. Pagazzi, Nato dal padre, ib., 261-272.
[53] Cf. A. Cozzi, Il mistero del figlio: generazione di Dio, destinazione dell’uomo, in AA. VV., Di generazione in generazione. La trasmissione dell’umano nell’orizzonte della fede, Glossa, Milano 2012, 161-221, qui 185-218.
[54] Interessante in questo senso constatare come al padre autoritario del Novecento con le sue proiezioni assolutistiche statuali, sia subentrata la società come “grande madre” che, attraverso il circuito produzione-consumo, non solo soddisfa i bisogni ma alimenta una sorta di infantilismo collettivo (cf. C. Risé, Il padre l’assente inaccettabile, 70).
[55] Cf., ad esempio, Educare alla vita buona del Vangelo, n. 36.
[56] Benedetto XVI, Lettera alla Diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione, 21 gennaio 2008.