I Anniversario Consacrazione episcopale

I ANNIVERSARIO CONSACRAZIONE EPISCOPALE
OMELIA DI S.E. MONS. CALOGERO PERI

Basilica Cattedrale
Caltagirone, 20 marzo 2011

Fratelli e sorelle,
non ho voluto scegliere a commento di questo primo anno di Episcopato nient’altro se non la Parola di Dio che il Signore in questa seconda domenica di Quaresima ci dona. Ritengo che, con applicazioni diverse per ciascuno di noi, possa servire a me ed a voi, sia per fare un bilancio ma anche soprattutto per rilanciare una prospettiva.
Il primo pensiero che vorrei sottolineare è che, dimentichi tutti di ciò che abbiamo vissuto, siamo sempre invitati a guardare avanti, perché Dio innanzi a ciascuno di noi vuole aprire un più vasto orizzonte, una prospettiva inedita, un futuro sconosciuto, un orizzonte vasto e spazioso, sempre un poco al di là e oltre quello che noi possiamo immaginare e pensare. Ecco perché sento rivolto a me, per quello che evidentemente mi riguarda – ma ciascuno può sentirlo rivolto a sé -, l’invito che Dio ha rivolto al nostro padre Abramo che è padre nostro perché padre nella fede. È sempre Dio che ci esorta a lasciarci alle spalle ciò che ci sembra appartenere a tal punto da costituire la nostra certezza, la nostra sicurezza: “vattene dalla tua terra, dalla tua casa, dalla tua patria verso la terra che io ti indicherò”. Dio indica a me, fratelli e sorelle, ma indica anche a ciascuno di voi, sempre un’altra terra o se volete una terra, un orizzonte, una patria, una prospettiva altra e diversa rispetto a quella nella quale possiamo acquietarci e mettere le radici.
La benedizione di Dio ci sta sempre davanti: ecco perché i passi che abbiamo compiuto servono semplicemente per indicarci che bisogna riprendere il cammino, che bisogna muoversi, andare avanti. Come abbiamo sentito nella seconda lettura, è questa una vocazione: infatti Dio ci ha chiamati regalandoci una prospettiva, un orizzonte, una esperienza nuova che viene dalla fede, viene dalla grazia. Questo è il suo progetto, il progetto in cui Dio ci vuole inserire per suo amore, per suo dono. Anche la pagina del Vangelo che oggi la liturgia ci propone mi sembra opportuna per fare una verifica ma soprattutto per tentare di delineare un programma. Dobbiamo chiederci: cosa avrei dovuto fare? È una domanda che ciascuno si deve porre, perché quello che abbiamo fatto serve semplicemente per dire evangelicamente che siamo servi inutili, cioè a dire servi di una esperienza più grande di noi.
E dunque voglio mettere davanti a me e anche davanti a voi la prospettiva che Dio ci invita ad avere. Non a caso mi sembra che Dio oggi ci parli di trasfigurazione o, se volete, di un incontro con Dio trasfigurato e trasfigurante. Vorrei proporvi l’icona, la prospettiva e il modello della trasfigurazione quale programma autentico di vita cristiana personale, parrocchiale, diocesana ed universale, perché se non marciamo verso la trasformazione profonda che Dio vuole regalare a ciascuno di noi, se non ci rendiamo conto che quella della trasfigurazione, è la prospettiva e la luce giusta per guardare il mistero della nostra vita e soprattutto per guardare la meta, non possiamo sapere verso dove andiamo. Da un monte, quello della trasfigurazione, siamo invitati a guardare un altro monte, quello del Golgota. Il monte della trasfigurazione rappresenta un momento unico, una prospettiva privilegiata, per guardare nella luce giusta il monte del Golgota, che è la nostra meta.
Perché per ora e per sempre, per me e per voi, per ognuno e per tutti, la meta è e resta sempre una: è la Pasqua. Pertanto il mistero, insieme di dolore, di sconfitta, di umiliazione che per ognuno di noi può essere la nostra vita, può essere visto e letto invece come anticipo, preparazione della Pasqua, del mattino, della luce e della resurrezione.
Dell’icona e dell’esperienza della trasfigurazione che si ripete e si ripropone a me e a te, vorrei soltanto sottolineare qualche passaggio.
Anche a me il Signore suggerisce di fare come ha fatto con i suoi discepoli: se voglio essere fedele ad un mandato, ad un dono, ad una grazia, anch’io dovrei, fratelli e sorelle, condurre voi discepoli del Signore in disparte, su un alto monte. Quanto mi sta a cuore questo! Riuscire a portarvi in alto, un po’ più in alto di quella mediocrità in cui tutti viviamo per avere una prospettiva diversa sulla nostra vita, un poco più in alto per una vita parrocchiale diversa, un poco più in alto per una vita diocesana più a misura di Dio e meno a misura delle nostre debolezze e fragilità, un poco più in alto sul monte che vi dia e ci dia a tutti la luce giusta, la prospettiva esatta, l’altezza necessaria per guardare con occhi nuovi la nostra debolezza, il nostro limite, il nostro peccato, la nostra quotidianità e riscoprire finalmente come è l’autentico volto di Dio!
Mi sono sempre chiesto: sul Tabor, il monte della trasfigurazione, si trasfigura soltanto Dio e il suo volto oppure vengono trasfigurati i nostri occhi per vedere Dio come si manifesta quotidianamente, ferialmente, nella nostra vita, in modo che riusciamo a vederlo come sempre è: mai appannato, mai offuscato ma sempre splendente seppur trasfigurato davanti a noi?
La trasfigurazione avviene sempre davanti a qualcuno e per qualcuno; la trasfigurazione non serve a Dio per ricordarsi chi è, serve a noi per ricordarci che cosa Lui è e che cosa possiamo essere e diventare noi.
Il suo volto brillò e in quel volto, in quella luce dobbiamo vedere brillare ogni volto di uomo che incontriamo; dobbiamo riuscire a vedere lo splendore del volto di Dio nel volto degli uomini, nonostante tutto, nonostante l’opacità della vita che spesso noi sovrapponiamo allo splendore della nostra esperienza. Ma noi non saremo capaci di avere questa tenacia, fratelli e sorelle, se rimaniamo in basso, se non saliamo, se non ci collochiamo sulla dimensione esatta, giusta, alta; su una misura alta della nostra vita credente, della nostra vita cristiana, della nostra vita di seguaci del Signore Gesù.
Perché solo l’incontro trasfigurante con il Cristo trasfigurato permetterà che il nostro sia un incontro trasfigurante anche con il volto degli uomini che noi vogliamo incontrare.
Mi ha sempre meravigliato che tutte le difficoltà dei discepoli, sono dovute (come sempre è accaduto: perché questa è una storia lunga e antica quanto quella degli uomini), alla fatica di stare insieme o di stare bene insieme, di stare sempre insieme. Questa è ed è stata sempre una fatica per tutti i gruppi, per tutte le comunità, per tutti i credenti, così è stato anche per quella del Signore Gesù. Sappiamo che mentre Lui li incamminava alla meta, alla Pasqua, loro discutevano su chi fosse il più grande, chi dovesse stare alla sua destra, chi alla sua sinistra, e si indignavano se qualcuno glielo chiedeva.
Soltanto quando stiamo nella luce giusta, soltanto quando stiamo nell’altezza esatta allora lo stare insieme diventa bello: “Signore che bello per noi essere qui!”. Solo quando stanno in alto, finalmente i discepoli sperimentano la bellezza della vita credente e della comunione. Perché quando stiamo in basso, fratelli e sorelle, sappiamo a che cosa possiamo ridurre il nostro stare insieme e la nostra convivenza: altro che quanto è bello e quanto è giocondo che i fratelli stiano insieme! Per stare insieme dobbiamo rimanere in alto, ma se cadiamo in basso allora la convivenza diventa una guerra, una violenza, una lotta, un’opposizione.
Non possiamo dimenticare che questo assaggio di “definitività”, che questo anticipo di Pasqua, che questa caparra di resurrezione deve fare i conti ogni giorno nella nostra vita con la quotidianità, con i limiti, con il peccato, con la fragilità. Ma per sapere affrontare la valle, per poter ritornare in basso e riprendere quotidianamente, ferialmente il nostro cammino verso l’altro monte che ci aspetta, quello della Pasqua, quello del Golgota, quello del Venerdì santo, quello della croce, abbiamo bisogno di una guida sicura. Non dimentichiamolo mai: quando l’oscurità e l’ombra appannano i nostri gli occhi, quando la nitidezza del mistero e della vita che dovremmo svolgere e vivere non ci è immediata, allora dobbiamo, fratelli e sorelle, aggrapparci tutti alla Parola del Signore: egli stava ancora parlando quando una nube luminosa lo ricoprì con la sua ombra. L’esperienza della vita è questa: luminosità ed ombra, luce e tenebre povertà e grandezza dell’uomo, sempre insieme, in me, in te, in tutti noi e negli altri. Dentro quest’oscurità a che cosa ti aggrappi per avere la regola giusta, la prospettiva esatta, per avere le condizioni opportune per non fare sbagli? Per uscire dalla nube e dal buio dell’esistenza, quando siamo immersi nell’opacità della vita, ci dobbiamo aggrappare alla Parola di Dio. Dalla nube c’è sempre una voce che si sente: questi è mio Figlio, ecco l’amato, ascoltatelo! Ecco l’imperativo di Dio!
Chi ascoltare nel buio della nostra esistenza? A chi mi aggrappo quando gli occhi, quando la chiarezza, quando la soluzione, quando tutto quello che dovrebbe essere immediato non lo è più o non è più luminoso, non è più così a portata di mano? Io per primo, fratelli e sorelle, ho il compito di indicarvi che c’è una Voce, che c’è una Parola, che c’è un Dio che continua a parlare alla nostra vita, a cui dobbiamo prestare il nostro ascolto.
Certo è un compito grandioso ed esaltante, per un verso, e gravoso e faticoso per un altro, impegnativo per tutti ma luminoso e attraente se solo ci incamminiamo verso questa realizzazione. Per questo ho la consapevolezza, ma anche la gioia, di potervi dire che nonostante le nostre paure, il nostro limite, la nostra incapacità di vedere chiaro, per le nostre debolezze e le nostre fragilità, il programma che sta davanti a noi è quello della Pasqua e, se abbandoniamo i programmi nostri, possiamo contare, in questo cammino faticoso, in questa prospettiva impegnativa, in questo progetto, sulla vicinanza e il conforto di Dio: “Gesù si avvicinò”. Quant’è bello sapere che nelle nostre fatiche Lui si avvicina a te e a me, ci tocca e ci dice “alzati e non temere”! Quant’è bello sapere che questo invito non viene da me, o dagli altri preti, anche se ciascuno di noi è chiamato come mediatore a rivolgerlo a voi e agli altri, perché voi lo rivolgiate a vostra volta a tutti quelli che incontrate! Dietro ogni parola di incoraggiamento, dietro ciascuno che ci invita e ci offre una mano per alzarci, c’è tutta la volontà, l’impegno, la grandezza e l’onnipotenza di Dio. È lui che ci dice: alzatevi non temete, perché alla fine, anche quando le nostre bellezze si dileguano, Lui resta sempre vicino a noi. È bello che i discepoli alla fine di questa esperienza non vedono più nulla se non Gesù solo. Lui resta sempre, anche quando i nostri sogni si dileguano, quando le nostre certezze svaniscono, quando la nostra forza se ne va; Lui resta sempre e comunque al nostro fianco ed ecco perché questo è, a mio avviso, l’unico programma. Se oggi abbiamo visto un po’ di luce di trasfigurazione, se abbiamo rinnovato i nostri occhi, avendoli fissati sul volto luminoso e splendente di Dio, se minimamente siamo andati un po’ più in alto e lo abbiamo visto così come è, dobbiamo adesso tutti avere il coraggio di riscendere nella vita di ogni giorno, nel cammino che ci sta davanti, con la certezza che anche nel buio, anche nella fatica, anche attraverso il nostro e suo Venerdì santo, tutti marciamo verso la Pasqua e la resurrezione.
Questo, fratelli e sorelle, deve essere l’unico nostro progetto, l’unico nostro programma: quello di essere veramente viandanti dell’assoluto, della Pasqua e della resurrezione. Questo sia il nostro dono a quest’umanità che fa fatica a sperimentare la luce attraverso le tenebre che ci circondano.