Il Concilio Vaticano II. Una storia meravigliosa

Le cose che nella vita accadono intorno ai vent’anni si incidono nell’anima con cifra indelebile e segnano la vita per sempre. A vent’anni si ha semplicemente voglia di vivere in fretta, di andare incontro alla storia, di adoperarsi perché tutto accada subito, di fare e un po’ anche… strafare (quando occorre!), di mettere le ali ai sogni e agli entusiasmi, di inseguire gli slanci dell’anima e proiettarsi nel futuro con le passioni del cuore che fanno pulsare il sangue nelle vene. Non c’è spazio né voglia per le prudenti considerazioni, per le circonlocuzioni o le chiacchiere oziose. A vent’anni le parole diventano ardite scommesse e urgenze indilazionabili. Quel che accade a vent’anni ha un peso ed un significato indicibile nel cuore e nella storia di ciascuno di noi.
Quando nella basilica di San Pietro in Vaticano, quell’11 quell’ottobre 1962 Giovanni XXIII dava  inizio solennemente il Concilio ecumenico Vaticano II, quelli che avevano vent’anni e sognavano ad occhi aperti progetti apostolici senza confini, sentirono il vecchio Papa (…di transizione, s’era detto!), bonario e sornione, che tutti però avevano subito imparato ad amare, pronunciò parole indimenticabili: Gaudet Mater Ecclesia (gioisce grandemente la santa Madre Chiesa…). E si comprese che non si era più nel sogno. L’aveva annunciato quasi timidamente, a pochi mesi dalla sua elezione, con parole sorprendenti nell’omelia pronunciata  nella basilica di San Paolo gremita di fedeli nella fredda serata romana del 25 gennaio 1959: «Venerabili Fratelli e Diletti Figli Nostri! – aveva detto – Pronunciamo innanzi a voi, certo tremando un poco di commozione, ma insieme con umile risolutezza, il proposito, il nome e la proposta della duplice celebrazione: di un Sinodo Diocesano per l’Urbe, e di un Concilio ecumenico per la Chiesa universale». Un Concilio ecumenico! Il clamoroso annuncio percorse le austere navate come un vento improvviso crescente e impetuoso che divenne applauso gioioso fino a farsi fragorosa esultanza.  Nei severi palazzi barocchi delle Congregazioni Romane l’aria era più preoccupata e non si faceva mistero di qualche perplessità. Ma nelle vivaci aule delle accademie pontificie, nelle ovattate stanze dei seminari e degli studentati iperprotetti dalle “insidie del mondo”, come nelle penombre delle chiese aduse a ritmi e linguaggi misurati, un po’ trionfalistici e un po’ stanchi, la voce tremante di commozione del Papa “buono”, aveva un incontenibile vigore e scosse dalle fondamenta la Chiesa di Cristo, come nella mattina della Pentecoste. Una Chiesa piantata nelle sue rocciose certezze scopriva improvvisamente di aver bisogno di essere restituita a nuova bellezza: questo Giovanni XXIII lo aveva capito bene e lo diceva apertamente. Non esitò a parlare di rinnovamento, di apertura, di dialogo con un mondo che cambiava vertiginosamente, di porte e finestra da spalancare, di nuova evangelizzazione. Anche lui (e non solo per l’età!) voleva che tutto accadesse in fretta. Dopo tre anni di intensa preparazione, l’azzardo profetico diventava realtà.  L’11 ottobre del 1962 nuova commozione a quell’incipit del’omelia che delineava le finalità della grande assise ecumenica: «[…] occorre che questa dottrina certa ed immutabile, alla quale si deve prestare un assenso fedele, sia approfondita ed esposta secondo quanto è richiesto dai nostri tempi. Altro è infatti il deposito della Fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione». “Istanze” crescenti e prepotenti accompagnavano l’eco delle grandi voci profetiche di quegli anni, che  rispondevano ai nomi di Von Balthasar, Rahner, Schillebeeckx, De Lubac, Congar, Bea, Alfrink, Suenens, Lercaro… e la memoria si inceppa. E poi le cronache delle assemblee dei Vescovi in San Pietro diventata “aula” di confronti, proposte e votazioni.  E  il cuore di chi aveva vent’anni si nutriva di avidamente di sogni e profezie: e anche chi vent’anni non aveva più era contagiato. Non dice la Scrittura che nei tempi messianici anche i vecchi sognano profezie come i giovani?
La Chiesa che il 7 dicembre del 1965 celebrava la conclusione del Concilio Vaticano II sentì nella voce flebile di Paolo VI, succeduto nel frattempo sul soglio di Pietro a Giovanni XXIII, di cui aveva ereditato un pesantissimo fardello, un linguaggio nuovo, una Chiesa tutta diversa. Il miracolo si era avverato. Schiere di giovani chierici divenuti nel frattempo la prima generazione di preti conciliari e  post-conciliari e  generazione di laici vogliosi di nuovo protagonismo nella società in frenetico cambiamento si univano con pari slancio in questa avventura dello Spirito, che sentivamo avanzare impetuosa all’orizzonte una storia gonfia di promesse, erano pronti ai blocchi di partenza, frementi e irrequieti, vogliosi di scommettersi a loro volta. Il travaglio degli anni che seguirono fu intenso e a tratti drammatico. Emersero crepe vertiginose. Il cambiamento vorticoso rischiò di farsi a tratti valanga informe, e molte sofferenze percorsero ampi strati della comunità credente. Lo sappiamo bene, quelli soprattutto che le abbiamo sentite sulla pelle e attraversato non senza smarrimenti. A distanza di alcuni lustri non è sempre facile fare ordine e tradurre in racconto l’impeto di tanta  straordinaria memoria. Le generazioni successive sono forse tentate di fare su quegli anni (con qualche ragione) analisi dotte e storiografiche piene di distinguo accademici e giudizi frettolosamente sommari a tratti anche un po’ retorici, cogliendo in quel tessuto denso di travagli solo crisi e smarrimenti, destabilizzazioni e fughe avventurose. Ma non è tutta la verità. Chi sentì sulla pelle il soffio bruciante dello Spirito in quel vortice denso di promesse e prospettive apostoliche, in quel tourbillon sociale, spirituale e culturale, non sempre lineare, sa quali fermenti straordinari avevano invaso le loro vite “immolate senza se e senza ma” ad una vocazione (magari sbagliando, soffrendo e a tratti smarrendosi) desiderosa sola di parlare i nuovi linguaggi delle Fede e della Speranza in un mondo tentato dalla “morte di Dio”, travolto dalla secolarizzazione, smarrito nell’anomia etica, assediato da una dimensione “politica” della vita e della storia che mordeva il freno di ogni moderazione. Tanti ci si smarrirono anche. Ma era ed è stata per i più “la scommessa” di una vita posseduta dal Vangelo e dalla voglia di  essere Chiesa “presente” e non disposta a lasciarsi scavalcare dalla storia. Anche per questo forse i protagonisti di quella promessa guardano oggi con qualche perplessità e malinconia, a tratti con un po’ di inquietudine al questo “dopo” che è sotto i loro occhi. Il timore che la stupenda avventura possa essere sciupata da “riflussi” che non sempre obbediscono ad una fede agostinianamente “inquieta”, attraversa l’anima. Mi sovvengono i versi di una canzone di quegli anni di Francesco Guccini, che da sempre mi commuove; quando richiamando le sue nostalgie un vecchio narra “i suoi tempi” al bambino che ascolta stupito, il suo sogno improbabile:
I due camminavano, il giorno cadeva,
il vecchio parlava e piano piangeva:
con l’ anima assente, con gli occhi bagnati,
seguiva il ricordo di miti passati…
I vecchi subiscon le ingiurie degli anni,
non sanno distinguere il vero dai sogni,
i vecchi non sanno, nel loro pensiero,
distinguer nei sogni il falso dal vero…
Il vento sottile di qualche presunzione aridamente schematica, di certo orgoglioso moralismo, di qualche vanitoso e stucchevole formalismo induce il timore che si possa smarrire la sostanza delle ragioni forti di quella avventura conciliare. Quei lustri, carichi di storie nelle quali non mancarono certo sofferenze e dolorosi smarrimenti, sono però storie “vere”, storie di vita,  storie  personali e comunitarie di tanti che hanno provato a combattere la loro buona battaglia, conservando la fede nel Signore della loro vita.  E’ la storia dell’unica Chiesa che tutti egualmente siamo chiamati ad amare, e alla quale sappiamo che non verranno mai meno sempre nuovi slanci profetici, gli stessi che allora fecero “difficili” ma bellissimi gli anni del concilio e del dopo concilio. La “sequela” è impresa severa ed esigente: Volete andarvene anche voi?  Ma le parole tenerissime del rude Pietro, il pescatore , rispondono: Signore da chi andremo? Tu solo hai parole di vita!

don Gianni Zavattieri